Cenno Storico
dell’Ospedale Maggiore della Carità di Novara
continuazione e Fine Capitolo VI
Cenno Storico
dell’Ospedale Maggiore della Carità di Novara
continuazione e Fine Capitolo VI
Non fu così presto caduto Napoleone che ricuperatesi dalla Casa di Savoia gli antichi suoi stati, ponevasi da essa prontamente studio ed opera a riporre sulla vecchia base ogni cosa che la repubblica od il governo del grand’uomo ne avesse smosso, e quindi a separare eziandio le pie instituzioni concrentrate.
L’Intendente generale del Novarese ne annunziava la separazione con le lettera del giorno venti di ottobre mille ottocento quattrordici. Gli antichi amministratori dell’Ospedale di San Giuliano, che rimpiangevano ancora il maneggio perduto, ne piegarono prima la separazione; mal comportando altresì quell’ instituto mettesse del suo per sostenere la beneficenza operatasi dalle instituzioni concentrate, e che così fosse il Cireneo chiamato a sopportare la croce altrui. E con regio biglietto del giorno due del settembre mille ottocento diciassette l’ospedale di San Giuliano venne separato e rimesso come prima. Chiedendo poi questo, che gli si facesse ragione per quanto dalla Congregazione di Carità fu venduto e poso del suo, l’Ospedale Maggiore venne con esso ad un temperamento, e pagavagli settantasei mila e settecento cinquantuno lire.
Il Monte di Pietà venne separato nel giugno del mille ottocento sedici e l’Ospedale Maggiore veniva con esso pure ad un temperamento, e lo rifaceva negli averi, pagandogli cento cinque mila lire.
L’opera pia di San Giuseppe fu separata il giorno sette di marzo dell’anno mille ottocento venti.
Il consorzio del B. V. del Riscatto venne separato il ventuno aprile mille ottocento ventitre.
E mano mano furono alla loro volta separate le altre pie instituzioni, non restando uniti all’Ospedale della Carità che l’ospizio de Pellegrini, perché già statogli aggregato prima che cadesse la monarchia Sarda, come vedemmo, e l’Opera pia Pallavicini, di tenuissimo censo, perché forse non richiamata da chi l’amministrava prima, o perché le spese di una separata amministrazione non ne assorbissero le entrate.
La congregazione di Carità dovette poi, così volendolo il regio biglietto del ventiquattro di marzo mille ottocento trentacinque lasciare il nome impostole dal governo di Napoleone e ripigliare l’antico di amministrazione dell’Ospedale Maggiore di Carità. Il corpo amministrativo però appena tornata negli antichi stati la casa di Savoia, veniva già riordinato giusta la bolla di Sisto Quarto e solo si aggiunsero in processo di tempo dalla Consiglio civico due altre Rettori ai quattro che erano da quella bolla instituiti, affinché gli affari ognora crescenti del pio luogo non si trovassero qualche volta incagliati.
Attuale condizione dell’Ospedale della Carità
L’economia di un’avveduta amministrazione, le ricche eredità del nostro Vescovo Filippo Melano Portula, del conte Francesco Avogadro, della nobildonna Antonia Solari Clerici, del conte Carlo Gaudenzio Bellini, del cavaliere Costanzo Porta, ed il rincarimento dei poderi e quindi dei loro fitti , posero l’Ospedale della Carità in grado di pagar presto i suoi gravi debiti e di accrescere altresì grandemente il proprio censo, fino a contare oggidì meglio di quattrocento mila lire piemontesi di rendita, somma cui non salivano tutte insieme le entrate delle pie instituzioni riunite, senza eccettuarvi quelle dell’Ospedale stesso della Carità. E se si ponga mente che nel mille settecento tre le entrate dell’Ospedale salivano appena a milanesi lire sessantasei mila seicento sessantanove, devono riuscire assai meravigliose le
attuali in vista del periodo di tempo ed del miserabile stato a cui le condusse fino all’anno mille ottocento quattordici il preceduto rivolgimento politico. Ma per non andare troppo in la del l’anno mille ottocento uno le rendite dell’Ospedale montavano a cento novantotto mila novecento quarantatre lire. Ne cui vuolsi tacere la molta parte che ebbe nel rifare il censo dell’Ospedale anche quel pio sacerdote di Filippo Albera (padre Saverio) cui tanti Novaresi venerarono, quanti lo conobbero. Per forse quarant’anni ci fu all’Ospedale la mano della provvidenza, e allora che i re Carlo Alberto lo fregiò della croce dei Santi Maurizio e Lazzaro onorò un merito tanto vero quanto raro, ed il pubblico voto si fece applauso.
Il cenno che ne diede l’avvocato Pampuri non vuol essere tralasciato “Filippo Albera, cappuccino conosciuto fra noi col modesto nome di padre Saverio, seguita la soppressione del suo ordine, assunse (1810) nel nostro Spedale Maggiore l’incarico di assistere agli infermi e di confortare i moribondi, ed in questo durò finchè visse, presentando l’esempio di uno zelo costante e di una moderazione inimitabile. Ed appunto pella moderazione e pello zelo quest’uomo veramente evangelico ebbe la confidenza e l’amore di tutti i suoi concittadini, che nei giorni dell’afflizione trovarono sempre in lui un amico discreto e un benevolo consolatore. Depositario di tutti i dolori, consapevole di tutti i bisogni egli sovvenne agli uni colle promesse dell’avvenire, e soccorse agli altri celando la mano che compartiva il beneficio. Padre Saverio era semplice nel suo discorso, ma i savii consigli ed i conforti che venivano dalle sue parole furono sempre efficaci, perché espressero le verità morali appurate dall’esperienza, corroborate dall’esempio e riscaldate da un cuor virtuoso; il suo aspetto venerabile cresceva la fiducia nell’animo dei credenti e la tranquilla serenità della sua fronte riflettendo gioje di una coscienza pura ed intemerata inteneriva anche i più induriti nelle colpe.” Visse povero osservando con rigore anche fra le angosce dell’agonia le più dure regole dell’ordine religioso al quale aveva appartenuto.
“Le sue affezioni” furono tutte pel pio luogo ch’egli chiamava il suo convento, e per gl’infermi che amava come suoi figli, è commovente fino alle lagrime era il vedere quel vecchio venerando deporre al principiar d’ogni anno nella cassa dei poveri i suoi scarsi risparmi accumulati a costo di continue privazioni e di “sacrifici”.
“Apostolo della Carità patrocinò la causa della beneficienza e persuase ai ricchi le pie largizioni ogni volta che lo potè senza offendere i vincoli del sangue, perché soleva dire dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini il primo dovere è quello di provvedere ai congiunti.
Per tanto l’Ospedale che del mille ottocento uno apprestava appena novanta letti pel malati, che, eccetto i mentecatti cominciati a ricoverarsi l’anno mille settecento sessantanove per disposizione di Carlo Emanuele Terzo, non accoglieva gli infermi di certe speciali malattie, trovassi in grado di apprestare di presente ben cinquecento letti e di accogliere cronici sifilitici, incinte di prole illegittima ed altri sgraziati. Ed ora fanno tre anni che venne aperto il pio instituto un asilo alle gravide eziandio di legittima prole conosciuto col nome di maternità; estensione di beneficenza, che fa fede dello zelo dell’amministrazione. Così più vasto campo vi prese l’insegnamento pratico di ostetricia, per cui fu instituita con autorizzazione sovrana dell’anno mille ottocento trentatacinque un apposita cattedra nell’Ospedale stesso ove detta lezione uno de chirurghi del pio instituto, a grande vantaggio della città e delle varie province eziandio che vi mandano le studiose per trarne esperte levatrici. Ma siccome parlo di cose dei nostri dì a tutti note lascio descrivere più avanti.
Fine
Giuseppe Garone.
Notajo archivista.
Ospedale Maggiore della carità di Novara 1853.